Il filantropismo era stato il movente o uno dei movimenti del socialismo di Robert Owen che chiamò la sua «comunità-colonia», New Armony, così come il socialismo francese partì dall’impostazione della rivoluzione industriale con i suoi problemi.
Ecco quindi il perché dell’appoggio di ricchi industriali e finanzieri ai «clubs» fondati da Saint-Simon proprio in quanto si consideravano i proprietari d’industria e gli operai come «coaudiatori» contrapposti all’alto-clero e alla classe nobiliare e dei grandi possessori di terra. Non da meno sono utopisti un Fourier o un Proudhon.
Nel 1848 appare anche il Manifesto del partito comunista di K. Marx commissionatogli dalla «Lega dei comunisti», nevvero un gruppo di esiliati nostalgici del lavoro in modo artigianale à la Rousseau (lo stesso Marx,di scuola hegeliana, tenderà sempre a dissociarsi dal filosofo ginevrino).
Il Manifesto è importante non tanto perché K. Marx credeva in quel tempo ad una vera rivoluzione proletaria, ma per l’etimo stesso di Manifesto che si contrappone alle consorterie segrete: la nuova classe che entra nella Storia a pieno titolo (il proletariato) ha diritto di far valere, “manifestare”, le proprie idee e rivendicazioni. La rivoluzione fu europea anche se non scosse l’impero zarista. In Italia si ebbero vistose realizzazioni, sebbene effimere escluso lo “Statuto piemontese” che rimase, nonostante la repressione che l’Europa post-rivoluzionaria dovette subire. Nel 1850 Cavour entra a far parte del Governo mentre Mazzini – l’eterno nemico – fonda in Inghilterra il «Comitato centrale democratico».
Mentre l’Italia andrà cercando la sua unità, il Cavour di certo aveva impostato una politica liberalistica, guardando in modo particolare ad Inghilterra e Francia.
Da noi il problema del Sud, delle campagne resterà irrisolto con il noto fenomeno del brigantaggio e non solo, come annoterà poi Pasquale Villari (la malavita organizzata). Il Liberalismo significa però industrializzazione e questa ha bisogno di tecnica, cioè della scienza applicata per espandersi ed esser competitiva.
Dall’altro lato, l’industrializzazione oltre a creare un nuovo modus vivendi e un modo nuovo “abito” di pensare, porta con sé il problema delle classi operaie, di coloro che vivono e fanno muovere gli ingranaggi dell’industria.
Il problema diventa sociale: dapprima il controllo degli operai e per controllarli s’abbisognava d’indagini, del loro stato di vita e via dicendo; non secondario è lo sviluppo tecnico-scientifico che è inscindibile dal sistema industriale.
Da qua le battaglie, soprattutto in Francia, contro le classi economiche-sociali che ostacolavano lo sviluppo tecnico; le inchieste sugli operai svolte da più fonti: dal movimento socialista per mettere in rilievo le brutture cui era sottoposto il proletariato, dall’altro canto dalle esigenze del capitalismo per controllare il comportamento sociale.
Da qui la nascita del Positivismo che si presenta come scientismo assoluto e come esigenza di creare una nuova scienza: la sociologia che assolvesse, non da ultimo, al compito suddetto. La pretesa della nascita di questa nuova scienza l’avrà Augusto Comte. A noi interessa notare come nel Positivismo siano presenti due correnti: l’Illuminismo – con questa rivalutazione della scienza e della tecnica – dall’altra il Romanticismo – I’Assoluto non è più lo Spirito – come nei romantici – ma la scienza che tutto risolve.
Il Positivismo contro la metafisica tradizionale propose il concreto, l’esperimento, l’oggettività, anche se del resto molto «naturalismo» restava assieme all’«utilitarismo» il quale mai si era sopito in Inghilterra (Bentham, Mill) ed ora, con lo Spencer, riceveva un nuovo e rigoroso impianto teorico.
Il legame tra mondo fisico e mondo umano agevola la ricerca scientifica. Si pensi a Darwin che con la sua «teoria evoluzionista» – risalente a tempi ben lontani – darà adito a Spencer di chiamare la sua teoria positivistica, Evoluzionismo.
È l’epoca anche delle grandi scoperte e ricerche: Pasteur non è che uno dei tanti grandi nomi.
Ora il Positivismo si ripercuote nei vari paesi con caratteri ben precisi e in letteratura e in arte prende il nome di Realismo.
In Italia abbraccia una scuola di pensiero non indifferente come quella di Roberto Ardigò. Nel nostro paese questo inno al progresso trova un ostacolo nella Chiesa cattolica, da qui la ripresa anticlericale che troveremo in molti autori.
Testimone fecondo del passaggio del Romanticismo alle nuove idee è il grande critico letterario, l’irpino F. De Sanctis.
FRANCESCO DE SANCTIS
De Sanctis merita un discorso a parte, sebbene solo dopo il 1870 si ebbe l’eco doverosa di critico, anzi il maggiore del nostro Ottocento. La sua Storia della letteratura Italiana, uscita in due volumi rispettivamente nel 1870 e 1871/2, è preceduta dai Saggi critici e dal Saggio critico sul Petrarca, va al di là della pura erudizione, è un’opera di letteratura essa stessa, agile come un romanzo, in breve. La sua Storia della letteratura italiana fu concepita inizialmente come testo liceale ed invece venne ad assumere ben altro valore: etico, storico e politico. Esule a Torino e in Svizzera, divise la sua vita tra lo studio e la politica attiva, (era un sincero democratico), facendosi uno strenuo difensore e paladino del nostro Risorgimento.
Divoratore del «bello», delle varie «poetiche», guardò sempre all’Estetica più che alla filosofia in generale. Egli è imbevuto di Hegel, il grande filosofo tedesco, e da questi impara a diffidare degli schemi e dell’apriorismo. Nel Filosofo tedesco ravvede una distinzione tra «forma» ed «idee».
Il tutto per Hegel diventa il riflesso dell’Idea al che De Sanctis replicherà che non esiste tale netta distinzione ma la forma non è solo la veste, l’abito («... il velo, specchio e so che altro...») dell’arte ma la forma – con l’idea – danno vita «...alla vera unità organica dell’arte...».
Quindi contenuto e forma nel Critico irpino si «compenetrano». La ricerca del poeta con i suoi sentimenti grazie alla sensibilità desanctisiana è ciò che rimane vivo nella sua critica.
Pur influenzato ancora del sentire romantico, Egli lo trascende, notando che nella scienza la filosofia trova le sue basi e non più nella dogmatica: «... un andar più dappresso al reale e alla esperienza...».
Donde il suo privilegiare Machiavelli e il vedere idealmente nel Manzoni «l’acmé» della nuova letteratura. Il Manzoni è il punto di arrivo e di partenza nonché di deterioramento (vedi coloro che si rifanno al milanese o «manzoniani»).
Manzoni e Leopardi resteranno successivamente gli unici autori moderni anche nei suoi studi posteriori, dopo aver abbandonato apertamente l’hegelismo con il suo “apriorismo ideale”, da cui discende il suo progressivo distacco dall’età passata e il guardare con crescente simpatia le nuove correnti quali il Positivismo e il Naturalismo e il nostro Verismo.