Il termine alterità deriva dal latino alter che si traduce con diverso, non identico, è sinonimo di diversità. È Aristotele (Stagira, Grecia 384 a. C. – Eubea, Grecia 322 a.C.) che distingue l’alterità dalla differenza tra le cose dello stesso genere ed è Aristotele il filosofo che studia l’alterità; però dobbiamo dire che il concetto di alterità nasce con la nostra epoca.
L’altro, per la filosofia greca, è necessario per avere la piena coscienza di sé, è lo specchio perché il singolo abbia conoscenza di sé; per i greci l’essere umano ha conosciuto sé stesso quando è riuscito a specchiarsi nell’occhio dell’altro. A questo proposito Sartre, inve-ce, afferma che l’occhio dell’altro è ciò che mi stron-ca, mi oggettivizza, è l’inferno per me.
Per Aristotele il mio essere è un modo di essere diverso dall’altro, ma sempre abbiamo bisogno dell’altro, il problema dell’alterità nasce nell’ambito dell’amicizia o philìa, di cui il filosofo si occupa nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea e nel libro VII dell’Etica Eudemia. Il filosofo, in questi trattati, esamina l’amicizia e il legame che l’amicizia può avere con la “felicità” e la “virtù”.
Per lo stagirita l’amicizia può essere perfetta e imperfetta, quella perfetta consiste nel rapportarsi in ciò che è essenziale nell’uomo, ognuno vuole il bene dell’altro, l’amicizia perfetta è quella tra persone simili nel perseguire la virtù; l’amicizia imperfetta consiste nel rapportarsi in ciò che è accidentale, quando gli amici vivono le loro relazioni avendo come fine l’utile o il piacere.
Il rapporto intersoggettivo richiede uguaglianza e similitudine e l’Amicizia è reciprocità fra uguali (Etica Eudemia 1157 B), perché non ogni soggetto può entrare in rapporto con me. La sacralità dell’altro è a livello di diritti e per Aristotele ci deve essere ricerca di uguaglianza, perché possa esserci rapporto intersoggettivo (Etica Nicomachea 115 – 1156 – 1170 – 1172). Nell’amicizia imperfetta non c’è né similitudine né reciprocità: esempio tra padre e figli, tra padrone e schiavo, tra uomo e donna, considerata da Aristotele inferiore. L’amicizia imperfetta serve per capire la perfetta perché, mediante l’amicizia imperfetta, ho la possibilità di capire la parte fisica di me e dell’altro. L’altro è necessario perché si abbia chiara conoscenza di sé stesso, per Aristotele è una questione psicologica (Etica Eudemia 1245). Posso cogliere me, mi avverto come soggetto, perché mi specchio come soggetto e solo perché mi specchio come soggetto, per analogia proietto me intorno alle cose (Nicomachea 1170). Però non è detto che io viva le cose, mentre le cose vivono in me. Finché io non mi avverto come soggettività non sono soggetto, per esempio lo specchio mi rende un’immagine che è passiva, mentre è l’occhio che mi rende altro, diverso. Non soltanto io mi colgo come soggetto, ma ho piena coscienza di essere soggetto.
L’altro mi è indispensabile perché le azioni dell’amico sono le mie stesse azioni. (Nicomachea 1156 nel libro VII).
Il bene per l’uomo non appare mai, se non nel fondamento dell’alterità. Solo Dio non ha amici. Aristotele si chiede se l’alterità è vista soltanto nella realizzazione di noi stessi o nell’essere (Nicomachea 166 – 168), per il filosofo vi è la possibilità di sdoppiamento nell’anima stessa: io amo l’altro in quanto la mia anima può sdoppiarsi; nel De Anima Aristotele afferma che se il nostro intelletto agente è costitutivo della metafisica, essendo presenza, in me c’è una distinzione qualitativa. Se c’è questa scissione forte dentro di me, ci può essere un forte interesse nel volere; se nell’altro è presente l’Assoluto, anche in me ci può essere l’Assoluto.
L’altro è amato, è ricercato in quanto altro e il rapporto per lui è costitutivo del mio essere, mentre per es. per Hegel e per gli idealisti, in generale, le coscienze si nullificano. In Sartre “l’altro” è veramente un altro, è un me che non è me, è un non me. Per Aristotele, invece, l’altro è un altro me, è un soggetto, sono sulla strada per amarlo come la parte più nobile di me; per Sartre poichè l’altro è un non me, ho fatto il passo decisivo per considerarlo oggetto. Il filosofo Fichte, esponente dell’Idealismo tedesco, afferma che io avverto la mia libertà quando colgo quella dell’altro.
Per Kant il costituire la filosofia pratica è ciò che permette l’alterità; la filosofia pratica necessita, presuppone in sé, l’esistenza dell’altro. La realtà dell’altro si attesta sulla riflessione del limite. Il concetto del limite è affrontato nei Fondamenti della metafisica dei costumi, opera pubblicata nel 1785 ed è inteso come voluto, come mezzo che io voglio per dare valore al mio io. In questo senso, quindi, bisogna parlare di autolimitazione, posizione radicata nel volo, intesa come posizione volontaria di finitudine e in quanto tale è da considerarsi concetto realistico. Posto nell’ambito volontario il limite mi è necessario. Il Dovere kantiano è riconoscenza dell’altro, nel dovere si radica il problema dell’altro, l’intersoggettività è riconoscenza esistenziale.
Mentre per Kant l’altro non è un oggetto neutro, esige un centro di obbligazioni, per il Cogito cartesiano l’altro è oggetto neutro, recupera in due momenti le valenze umane, nel cogito e nel sum e il riconoscimento dell’altro non è etico. Riconoscere l’esistenza dell’altro, per Kant, è consentire che di fronte al mio dovere ci sia un dovere diverso dal mio. Nell’atto stesso in cui il mio intelletto avverte l’esistenza dell’altro, vi è un volere che si contrappone al mio.
Come introduce Kant questo concetto? Mediante il concetto di libertà, infatti la libertà costituisce la chiave di volta della ragion pura. La libertà per dirigere ricerca dentro sé stessa le leggi: si affaccia il problema della persona dell’altro, tutto questo è operato da Kant sul piano esistenziale. Per Kant è impossibile parlare dell’esistenza dell’altro senza partire dal sentimento soggettivo dell’altro e il sentimento del rispetto è provocato dal fatto dell’esserci dell’altro.
Per Kant porre l’esistenza dell’altro e porre il valore dell’altro significa affermare la stessa cosa (Fondamenti metafisici dei costumi). Ogni essere ragionevole esiste come fine in sé, come valore che per affermare sé stesso non richiede altro che sé stesso, fine in sé nel significato che non può essere usato come mezzo né per la propria né per la volontà altrui; il fine è ciò che realizza la perfezione massima della cosa, perché le cose hanno consistenza ontologica e gli esseri ragionevoli sono chiamati persone perché il fine in sé è nella loro natura, fine che non è strumentalizzato per l’altro, di conseguenza ciò non scinde l’atto dell’esistenza e della conoscenza dall’atto del valore.