Il profugato Friulano-Veneto

Storie di grande umanità e non solo

Al nome di Caporetto è legato il ricordo di una delle più dolorose sconfitte che l’Esercito italiano ha subito nel corso della sua storia, tanto da proporsi nell’immaginario collettivo come sinonimo di disfatta.
La battaglia di Caporetto, combattutasi tra il 24 ottobre e il 27 novembre 1917, ha portato con sé anche ripercussioni di ordine sociale ingiustamente minimizzate, se non ignorate, dalle pagine dei libri di storia. Tra queste anche il cosiddetto profugato veneto-friulano animato da ben 600mila tra donne, vecchi e bambini – provenienti dall’Altopiano di Asiago e dalla Valle del Brenta, ma anche da città come Udine, Venezia e Treviso – che abbandonarono il territorio invaso o minacciato dall’esercito austriaco.

Paesi completamente svuotati, i cui uomini più giovani erano impegnati al fronte. Famiglie smembrate, spesso dirottate in territori lontani da quello d’origine e anche geograficamente distanti tra di loro. Molte di loro non riuscirono mai più a ricomporsi: raramente per scelta, più frequentemente perché avversate dalle sfavorevoli fasi dell’esodo.
Ho potuto godere dell’amicizia e della frequentazione di Maria Teresa, maestra elementare in pensione, prossima a tagliare il traguardo dei 101 anni d’età, che, “consegnandomi” i suoi ricordi, mi ha fatto scoprire il drammatico fenomeno del profugato veneto-friulano. Maria Teresa, originaria di San Marco in Lamis, leggiadra cittadina sul Gargano che oggi conta circa 12.000 abitanti, è figlia di una delle migliaia di donne che nel 1917 hanno abbandonato il proprio paese per cercare protezione e ospitalità in altre regioni italiane, soprattutto Sicilia, Campania, Calabria e Puglia.

Mia mamma si chiamava Luigia – mi dice Maria Teresa – ed era nata nel 1896 a Possagno del Grappa, una di dodici tra fratelli e sorelle. Aveva studiato e conseguito il diploma magistrale a Padova. Con la disfatta di Caporetto, il Grappa acquistò grande importanza strategica essendo diventato il baluardo rispetto alle truppe austriache che ambivano alla conquista delle rive orientale del Piave. Mio nonno Antonio, con la nonna Maria, con mia mamma Luigia e la sorella Rosalia, furono costretti a partire profughi per cercare riparo e sicurezza in altre regioni del Paese. La mia mamma, la nonna e la zia Rosalia furono inviate a Foggia, mentre mio nonno dovette proseguire per la Sicilia ma riuscì occasionalmente a raggiungere la moglie e le figlie per poterle salutare.
Le tre donne però, così come altri profughi che con loro erano giunti a Foggia, non traendo beneficio dal clima e dalla sistemazione loro riservata in città, furono ben presto trasferite a San Marco in Lamis, dove il clima si dimostrò più prossimo a quello del paese di provenienza.
Terminata la guerra – continua Maria Teresa – il nonno e nonna Maria rientrarono a Possagno. La mia mamma, invece, decise di fermarsi a San Marco perché quello che sarebbe diventato il mio papà, il giovane Pasquale, rientrato in paese dopo la disfatta di Caporetto, ebbe modo di conoscere la mamma e si sposarono: era il 21 aprile 1919.

Una vicenda umana minore, potremmo dire, a fronte dell’immane tragedia che l’ha generata. Un effetto collaterale virtuoso, però, rispetto a una calamità qual è stata la prima guerra mondiale.
Il rientro nei luoghi d’origine non fu lieto quanto il cuore lasciava sperare. O, almeno, non per tutti.





In foto il drammatico esodo di friulani e veneti verso il sud.
Una tragedia nella tragedia.
Migliaia di donne, vecchi e bambini abbandonano le loro terre invase dall’esercito austro-ungarico, dando vita alla più grande tragedia collettiva che interessò la popolazione civile durante la Grande Guerra.


In tanti – conclude Maria Teresa – furono costretti a cominciare daccapo perché trovarono tutto distrutto, soprattutto le abitazioni. Tuttavia, la ripresa fu avviata dalla terra, riprendendo dalle produzioni tipiche dell’agricoltura di quel territorio: meleti, vigneti, frutteti in generale.
Si calcola che meno della metà dei 600.000 profughi siano rientrati nelle città e nei borghi del Veneto e del Friuli che avevano abbandonato: molti, i più anziani soprattutto, furono sopraffatti dai disagi degli spostamenti e anche dal mancato ambientamento nei luoghi che li ospitavano, altri per scelta o, come nel caso della giovane Luigia, per amore…
Caporetto, intanto, simbolo di disfatta ma anche icona di dolore e di affetto insieme per quello che ha rappresentato nella storia degli italiani, subito dopo il secondo conflitto mondiale è entrata a far parte della Repubblica jugoslava, prima, e poi della Slovenia con il nome di Kobarid.

Posted

20 Apr 2021

Storia e cultura


Duilio Paiano



Foto dal web





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