La condizione della donna nella società, lungo il corso dei secoli, ha subìto molti cambiamenti e in quasi tutti i tempi e paesi essa è stata sottomessa all’uomo dal punto di vista giuridico, economico e civile e per tanto tempo è stata esclusa da tutta una serie di diritti e di attività sociali.
La donna nell’antica Grecia era giuridicamente libera, ma non godeva di diritti politici; il fulcro della società ateniese era rappresentato dal nucleo familiare, la donna era data in dono (in moglie) con la dote dal padre o dal tutore.
Il suo ruolo nella polis, pertanto, era quello di sposarsi e attraverso la procreazione trasmettere il diritto di cittadinanza ai propri figli. Nel matrimonio il suo compito era del tutto passivo, la sua funzione come cittadina ateniese era duplice: all’interno dell’oikos (casa/famiglia) garantiva la trasmissione della generazione e nella polis garantiva il diritto di cittadinanza.
Ma la donna era pur sempre segregata nella casa, il suo compito era quello di accudire al lavoro domestico, di svolgere mansioni, quali la filatura, la tessitura, la preparazione del pane, dei pasti. Era subalterna e sempre sotto la tutela del kirios (signore) sancendo, in tal modo, l’assoluta marginalità del suo ruolo (Eva Cantarella L’ambiguo malanno. La donna nell’antichità greca e romana).
Nella polis la donna era esclusa dalla società, isolata dalle attività politiche, culturali, economiche prettamente maschili.
Ciò che è evidente è che, nella società più avanzata e democratica della Grecia, la donna non era equiparata all’uomo, anzi Tucidide nell’Epitafio di Pericle afferma che la loro maggior gloria consiste nel fatto che non si parli affatto di loro, né in bene né in male e che il nome della donna virtuosa, così come il suo corpo, debba rimanere chiuso all’interno delle mura domestiche. Il riferimento è all’orazione periclea per i caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso. In questa opera Tucidide mette in evidenza la marginalità e l’anonimato dell’universo femminile, destinato ad essere ininfluente come altre categorie, quali gli schiavi e i bambini e l’aretè (virtù) femminile coincide, pressoché interamente, con una significativa damnatio memoriae.
Invece la società omerica è stata ritenuta più aperta nei confronti della donna, nonostante il carattere immaginario e nonostante l’assenza nei poemi omerici delle donne comuni, in quanto le donne di cui si parla o sono le donne degli eroi o le schiave.
Károly Kerényi in La nascita di Helena in Miti e misteri dà una importante chiave di lettura della figura di Elena e fa riferimento ai Kypria (I Canti Ciprii) che cantavano i fatti accaduti prima dell’Iliade; nei Kypria il riferimento è alla nascita di Elena, frutto dell’ardente desiderio di Zeus di possedere Nemesi, la quale cerca di sfuggire alla brama di Zeus. I compendi raccontano che Zeus, sotto forma di cigno, raggiunse Nemesi che, nel frattempo, si era trasformata in oca selvatica, nell’aria, non riuscendoci né nel mare né sulla terra.
Dalla loro unione/violenza maschile primordiale, nacque la donna più bella del tempo, Elena e con Elena, il destino funesto per Troia. Ma Elena rappresenta, per il poeta dei Kypria, la vendetta di Nemesi, sua madre, offesa da Zeus: è la vendetta cosmica, ossia ciò che viene trasgredito viene sostituito dalla vendetta. L’offesa moltiplica lo spirito della vendetta: Nemesi partorisce e rinasce in sua figlia, Elena (Károly Kerényi).
Poiché il mito ci ha tramandato che è stata la bellezza di Elena la causa della guerra, Omero nega la sua funzione di némesis, ossia la violenza maschile primordiale causa della reazione femminile. Ma la stessa posizione di Omero nei confronti di Elena è ambigua, oscilla tra una interpretazione del personaggio, colpevole della guerra di Troia per il suo comportamento scandaloso e la considerazione in cui Elena era tenuta, non solo per la sua divina bellezza, (Iliade, III, 158) anche per il possesso da parte sua di qualità in qualche modo sovrumane (Odissea, IV, 220). La lettura della Teogonia di Esiodo, scritto in esametri dattilici, pone la figura di Elena come la rappresentazione del femminile per eccellenza, ma è pur sempre nella donna la sorgente della sofferenza terrena, da lei viene la stirpe funesta delle donne / che abitano tra gli uomini, grande malanno per i mortali (Teogonia, 590 s.).
Agli occhi di Esiodo la donna è innanzitutto un consumatore, laddove l’uomo è per essenza un produttore (Opere, 519 ss): la realtà sociale del mondo contadino è da lui espressa bene, è un mondo che Esiodo conosce perfettamente e sa che l’agricoltura è prima di tutto fatica e lavoro e la donna, per sua natura, è un’amministratrice dei beni prodotti dall’uomo. Ma Esiodo ci racconta come la donna, il bel male, sia stata creata per punire l’umanità e proprio attraverso il mito di Pandora ci spiega come fu la donna la causa dei mali; essa, infatti, togliendo il coperchio del pithos, causò agli uomini gravi amarezze. In quel vaso, nel pithos, erano racchiusi tutti i mali dell’umanità; l’uomo nel possedere la donna e nel godere della sua bellezza, ha ereditato anche tutti i mali.
Esiodo, nella Teogonia, crede di dare una motivazione sul perché la donna sia un male, ma dietro la figura di Elena o di Pandora si nasconde un modo di pensare e di comunicare una realtà molto più complessa, per i grossi problemi che l’uomo greco ha dovuto affrontare sia per comprendere se stesso sia il mondo circostante; i testi mitologici, in tal senso, ci offrono un fondamentale strumento per interpretare e identificare la nascita della nostra civiltà.