Il mistero dell’essere, della vita e della perdita, tutto questo è racchiuso nei versi di Giannicola Ceccarossi. Il poeta si pone alcuni interrogativi che nascono nel suo animo e che vengono, forse, risolti in senso catartico, nel naturale divenire dei versi. Giannicola, figlio di Domenico, grande musicista solista, nasce a Torino e dopo una carriera manageriale, comincia a dedicarsi alla poesia. Dal 1967 pubblica ben diciotto raccolte di poesie, vincendo numerosi premi e riconoscimenti.
Nella silloge Quando il tempo verrà fragile come la luna, si avverte un senso di smarrimento dovuto alla perdita dei genitori dai quali è stato tanto amato, di quell’amore che protegge e cura l’essenza del tutto. È una perdita che rende orfani a qualsiasi età, infatti il poeta si chiede: “Se quei fantasmi/ che vivono accanto a me/ mi diranno dove andare/ o dove ritrovare me stesso/ tornerò fanciullo/ e tornerò ad ascoltare/ i sogni dalla bocca di mio padre/ e scorgere/ il sorriso malinconico di mia madre”. Inoltre, la descrizione della natura addolcisce e rende meno amara la sopravvivenza con i suoi verdi baccelli, i canneti, le pernici, i fringuelli e la magnolia. Ed è proprio nella natura che avviene una sorta di comunione spirituale: “La pioggia fitta mi benedice/ e avverto essenze/ di humus e piante/ Sono felice e sorrido/ sta smettendo/ poche lacrime e poco vento”.
Nell’articolo apparso su Pomezia-Notizie del febbraio 2020, rivista letteraria diretta dal poeta e giornalista Domenico Defelice, Marina Caracciolo afferma: “Soltanto questo incanto riesce a distogliere la mente del poeta dagli affanni e dagli assilli esistenziali, a distendere la sua fronte pensosa per consentirgli di guardare il cielo, gli alberi, gli uccelli quasi con la medesima confidente serenità della giovinezza”.
La sua, dunque, è una natura che lo accompagna, che lo rende meno solo e che lo induce alla riflessione intima e al dialogo con il proprio corpo, soprattutto mediante il senso del tatto. Il tatto che, attraverso le terminazioni sensitive della pelle, permette di riconoscere la forma, la consistenza e le caratteristiche degli oggetti, ma anche e soprattutto le persone che il Ceccarossi ama e dunque le braccia diventano, nelle sue poesie, il simbolo del gesto affettuoso ed amorevole di un figlio che ha perso i suoi genitori e con essi molto altro. Nelle liriche si avverte il senso di una solitudine subita per assenza di affetti, un isolamento ricercato dal momento in cui i punti di riferimento del poeta sono venuti meno.
Il termine “solo” ricorre molto spesso, come unico e singolo, divenendo un’iperbole, per dare un tono più acuto ed amplificato ad un’immagine o ad un concetto: “Solo di giorno [...] sia solo un granello di sabbia [...] saranno solo d’amore [...] solo su questo lido [...] solo un sogno [...] resta solo l’amore”.
Sembra ci sia un’esclusività che è solo per pochi, forse per i suoi genitori che lo hanno tanto amato e la conseguente stima che è nata nei loro confronti come individui unici.
Nella prefazione Emerico Giachery scrive: “Un cammino che per lo più si snoda e sviluppa in uno spazio solitario, estraneo a poetiche e tematiche imperanti, in un raccoglimento interiore fatto di attese, di interrogativi, di ascolti”. È vero, il poeta crea un suo personale spazio, nel quale il tempo appare fisso, immobile ed il luogo sembra sia quasi metafisico, che va, dunque, al di là di tutto ciò che è tangibile e naturale, eppure dall’uso che il Ceccarossi fa dei termini che ri-guardano il corpo, che appaiono ben trentasei volte (occhi, mani, bocca, dita, gola, capelli, brac-cia, testa, cuore, schiena, ciglia, palmo, volto e viso) sembra che l’unico modo che egli stesso ha di vivere, amare, sia quello che passa dal corpo e per mezzo del corpo, con un abbraccio, con una stretta di mano, un bacio, una carezza e quando la fisicità manca, inizia per il poeta la sofferenza, da cui deriva la sua inconsolabile solitudine.
La sua è una solitudine che non si sazia e rimane nei giorni, nelle assenze e negli interrogativi che il nostro si pone: “Come posso dimenticare? [...] Dov’è il sole? [...] Fino a quando porterò questa croce?”. La sensibilità di Giannicola Ceccarossi si mostra in tutta la sua trasparenza e si apre agli interrogativi che solo un’anima profonda può chiedersi. Le liriche sono tanto delicate quanto umane. Il poeta traspone emozioni e sentimenti che sono umani, nel senso che appartengono universalmente a tutti gli uomini e le donne, ma ciò che li rende però unici, è lo stile singolare grazie anche ad un linguaggio chiaro e semplice, unito alla scelta di usare pochissima punteggiatura, la quale mette in risalto alcuni versi, lasciandone altri fluttuare con più libertà nella lettura e nell’interpretazione. Ed è in questa libertà che l’immagine del poeta si delinea con forza, tra il ricordo, la nostalgia e la solitudine, mentre aspetta nella luce dell’alba la speranza di un nuovo giorno.
Ibiskos Ulivieri Editore, 2019
Prefazione di Emerico Giachery